Una persona cara, il cui idealismo vorrei possedere uguale invece che pallido, e che dunque invidio, mi ha messo tra le mani La Règle de Taizé. L’ho letta d’impulso, nella sete di trovarci il segreto dei grandi fatti di dedizione e di proselitismo nel tempo del monachesimo.
Non ho avvertito le scosse che dovettero muovere a seguire Benedetto da Norcia, Francesco da Assisi e Chiara. Ma controluce ai brevi precetti della Règle mi sono apparsi i segni di quel miracolo moderno -e francese: i pensatori francesi hanno saputo come quasi nessuno fare profonda e lirica la ricerca del divino- che è stato Taizé: il risorgere in tanti giovani dell’anelito. I nostri tempi lo avevano intristito.
In epoche e temperie lontane avevamo il coraggio di chiamare ‘spirituale’ questo anelito. Oggi il rispetto umano e la diffidenza verso la commozione ci obbligano a volare basso, a pensare prosa anche quando vorremmo arrenderci allo stupore, anche quando i sentimenti ci prendono alla gola. Abbiamo visto le moltitudini giovanili accorrere a Taizé in Polonia a Milano; le abbiamo amate mentre in lunghe file attendevano ridendo umili scodelle di cibo; mentre dormivano per terra. In breve, le abbiamo viste rifiutare il tristo edonismo del benessere before Lehman Bros. E ci siamo negati di abbandonarci alla speranza, speranza in cieli nuovi, speranza in un altro Avvento. Ci siamo costretti alla scaramanzia di ridimensionare: ‘accorrono ai semplici riti e ai canti mantrici di Taizé per l’happening, per riempire giorni di vacanze, per passare l’attesa delle risposte ai curricula. Le faticose notti di treno, di pullman quasi gratuito dall’Est allora straccione, abbiamo voluto spiegarle col semplice vitalismo/cameratismo dell’età’. Meglio, ci siamo detti, non fantasticare sul ritorno dei grandi slanci.
Eppure questo è stato Taizé, quale che sia l’efficacia trascinatrice della Règle. La Regola è per gli eroi silenziosi che sentono di farsi monaci -eroismo dei pochissimi. Eppure leggere le sommesse formule del credo di Taizé -nelle stesse ore che il caso voleva mi macerassi sulle cronache delle millenarie sconfitte del Cristianesimo, nello strazio delle turpitudini di Ecclesia meretrix medievale e rinascimentale- è, al peggio, un miraggio, una fatamorgana di liberazione. Ma forse è qualcosa di molto più.
Il fenomeno Taizè potrebbe non essersi spento. Potrebbe ancora rigenerare. L’epoca che viviamo è qua e là meno bestiale che in passato. I popoli non si trucidano più come un tempo nel nome di cause abiette come Patria e Ideologia. I bambini orfani non devono più seguire e ingrossare i funerali dei solventi per la riconoscenza d’avere una branda in camerata. I poveri assoluti non sono più segregati come lebbrosi. Tuttavia l’epoca che viviamo è un cortile che non vede mai il sole. Gli dei che ci tenevano compagnia sono morti tutti; Colui che speravamo tornasse lo farà solo alla fine dei tempi.
In questo gelo della speranza il risorgere dell’anelito è un prodigio che si rinnova senza tempo. Fu per tale prodigio che le religioni misteriche e le vocazioni di salvezza venute dall’Oriente -il credo di Mitra, il culto di Cibele madre degli dei, persino l’allucinato mito di Attis, il di lei amante- furono accolte con riconoscenza dalle élites romane. Divennero l’ultima trincea pagana contro il Cristianesimo che avanzava. I credi di redenzione si diffusero in tutto l’Impero: promettevano la felicità delle anime come gli antichi collegi sacerdotali, gli aruspici, gli arvali, i luperci, i feziali, i flàmini, non avevano mai saputo fare.
Al minimo, Taizé è, forse resterà, un barbaglio di luce salvifica, al di là delle disfatte delle grandi Chiese. Taizé è esotico rispetto alle nostre tradizioni, come lo furono Cibele, Dioniso e Mitra. Le miscredenze di più di un pensiero unico liquideranno Taizé come un sogno di fideisti ingenui. Ma le miscredenze usano trionfare su paesaggi di morte, e invece la Vita è invincibile.
l’Ussita