Guerra e Rivoluzione, un saggio di Lev Tolstoj del 1906 ancora praticamente inedito, è stato recentemente pubblicato, a cura di Roberto Coaloa, da Feltrinelli. Sarebbe più giusto definirlo un pamphlet per la forza e rilevanza sociale dei temi trattati. Le estreme riflessioni politiche di un Tolstoj ormai vicino alla morte, hanno lasciato all’umanità una visione di pace, di fratellanza e insieme di insubordinazione verso il potere politico che resta, più di un secolo dopo, inattuata e magnifica.
Di che Guerra e di che Rivoluzione si parla? La guerra è la sanguinosa ed inutile guerra russo-giapponese del 1905 e la rivoluzione è la prima delle tre rivoluzioni russe che si aprì con la cosiddetta krovavoe voskressen’ie, la domenica di sangue: il 22 gennaio 1905 un’intera piazza che manifestava pacificamente si lasciò mitragliare e sciabolare senza alzare un dito.
Tolstoj, profondamente scosso dagli eventi, affida alla penna le sue ardenti verità. Si tratta di un Tolstoj estremista, pacifista non violento, vegetariano, lo stesso che ingaggiava profondi dialoghi epistolari con Gandhi-al Mahatma proprio l’ultima lettera mai scritta da Tolstoj- e che si opponeva alla violenza persino sugli animali, figlia, come la violenza sugli uomini, della stessa perversione: “finche ci saranno mattatoi, ci saranno campi di battaglia”.
Nell’ottobre del 1905 scrive sul suo diario: “la rivoluzione è al suo culmine. Si uccide da entrambe le parti. La contraddizione, come sempre sta nel fatto che con la violenza l’uomo vuole frenare, arrestare la violenza”. Questa è la summa dell’etica tolstoiana, che tanto influenzò lo stesso Gandhi. Lo scrittore austriaco Stefan Zweig riassume l’etica di Tolstoj dicendo che egli riformula la parola evangelica “non resistere al male” e le dà questa interpretazione creativa “non resistere al male con la violenza”. Solo così il messaggio cristiano potrà davvero venir realizzato, spezzando, come dice René Girard, il meccanismo mimetico che obbligherebbe l’uomo a rispondere a violenza con altra violenza.
Il mondo non è come dovrebbe essere, questo è il punto di partenza di Tolstoj in questo inedito saggio. Uomini che non si conoscono e che non hanno motivo di farlo si massacrano, spinti a farlo da istituzioni fittizie quando, nella realtà, non esiste alcun buon motivo per compiere alcuna guerra. Come Rousseau, Tolstoj sembra chiedersi come sia possibile che l’uomo, nato libero, ovunque sia in catene, oppresso da forme di potere di volta in volta più diverse, più sottili, ipocrite, invisibili. Non importa che abito si metta il potere, assoluto, democratico, teocratico o laico: nulla di buono per i popoli potrà mai uscirne. Le forme sociali cambiano ma i rapporti fra gli uomini restano invariati “come un corpo che nella sua caduta cambia la sua posizione, mentre la linea che segue il baricentro, il centro di gravità resta invariabile”. E ancora insiste Tolstoj: “lanciate un gatto da un’altezza: può rigirarsi su se stesso, avere la testa in alto o in basso, il suo centro di gravità non uscirà dalla linea di caduta. E la stessa cosa dei cambiamenti delle forme esteriori della violenza governativa”.
Evidente lungo tutto il saggio è la profonda avversione che Tolstoj nutre verso i governi e l’autorità politica in qualsiasi forma essa si manifesti. Secondo il grande romanziere russo, l’umanità è talmente avvezza all’errore, a pensare che i governi come gli stati siano necessari che non s’accorge che da tempo, forse da sempre, essi sono un superfluo male:“…lavorando essi stessi alla loro servitù, poiché credono alla necessità dello stato, gli uomini fanno come gli uccelli che, davanti alla porta aperta delle loro gabbie, restano dentro le loro prigioni, un po’ per abitudine e un po’ per conoscenza della libertà”.
Le sue riflessioni sull’irredimibile ingiustizia di ogni autorità e della necessaria perversione di chi possiede ed esercita il potere restano questioni fondamentali. Le tante, articolate autorità che governano oggi il mondo, sono esse legittimate? Sono addirittura necessarie? E come fare per portare a termine quello che Locke chiamò l’appello al cielo, come liberarsi dal tiranno ingiusto, corrotto, incapace e tornare allo stato di natura? Non con la violenza ci dice Tolstoj, né, tantomeno, con vani tentativi di riforma: ogni uomo che dovesse toccare la mela d’oro del potere si corromperebbe. Solo l’unione pacifica ed egualitaria dell’umanità, che Tolstoj vede come il vero destino del mondo, potrà restituire l’uomo al proprio cammino cristiano.
Il rifiuto di obbedire al governo e di riconoscere i raggruppamenti artificiali in stati deve portare l’uomo “alla vita naturale piena di gioia e tutta morale delle comunità agricole sottomettendosi ai loro regolamenti, comprensibili a tutti e risultanti dal mutuale consenso e non dalla costrizione”. Non è un caso che la comunità agricola, su cui Tolstoj insiste con forte commozione, in russo si dica mir, che vuol dire anche mondo e, ancor più importante, vuol dire pace. Allora, tornati allo stato di natura, nessuna autorità e nessuna violenza sarà più necessaria poiché l’autorità deriva dal peccato originario (stavolta terrestre), e cioè l’appropriazione della terra con le differenze economiche –e quindi i conflitti- che ne sono derivati: “Colui che da solo possiede delle decine di migliaia di ettari in foreste ha bisogno di protezione quando vicino a lui milioni di uomini non hanno la legna per scaldarsi”.
Lo stato e l’autorità sono insomma ontologicamente ingiusti, perché nati e strutturati per assoggettare tanti a vantaggio di pochi. Sembra di sentire Marx, ma Tolstoj va oltre le classi e parla all’umanità intera.
Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, valori cosi miseramente calpestati dalla storia, sono ancora gli ideali giusti e lo resteranno fino a che non verranno realizzati, ma, insiste Tolstoj, realizzarli con la violenza renderà vano, un’altra volta, il tentativo.
I potenti di oggi sono immuni da quest’errore? La presunzione dell’occidente di aver raggiunto la migliore forma di gestione del potere, dei soldi, della terra, degli uomini ci pone di fronte alla solita domanda scomoda: davvero si può esportare un modello, anche il migliore modello politico ed economico, senza compiere violenza sul prossimo? Chi dà il diritto ad una fittizia struttura statale di violare una reale libertà e una vita, di imporle tasse ingiuste, spesso di rubare, di condannare a morte? Quale meccanismo perverso autorizza, giustifica e addirittura loda un sistema di questo tipo? La salvaguarda della vita e dei diritti fondamentali secondo la classica letteratura politica da Hobbes in poi. Per Tolstoj invece queste sono menzogne colossali e la necessità dello stato è una superstizione fasulla. “Come vivremmo-si chiede- senza essere assoggettati a nessun governo?”
“Come viviamo oggi ma senza le bassezze che commettiamo a cagione di questa orribile superstizione. Noi vivremmo lo stesso ma senza togliere alla nostra famiglia il prodotto del nostro lavoro; non più sotto forma di tasse di diritti di dogana che servono solo alle cattive azioni; noi non parteciperemmo più agli arresti della giustizia, alla guerra, né a qualsiasi altra violenza che commette della gente completamente sconosciuta a noi”.
Il libro di Tolstoj, che copre, oltre all’analisi politica riportata, temi morali religiosi e storici, colpisce per la grandezza del pensiero, anche se a tratti risulta impossibile, estremo, utopico.
Ma l’utopia è necessaria per qualsiasi progetto umano e politico, come ricorda lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano con queste belle parole:
“Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.”
Tolstoj ci aspetta, secoli davanti nel nostro cammino comune e questo libro ne è una fortissima, vivida testimonianza.
Raimondo Lanza di Trabia
Per la lettura: Guerra e Rivoluzione di Lev Tolstoj, (2015 Feltrinelli, p.177)