“Prima che il mio mandato alla Casa Bianca finisca, dovremo fare nuove prove per dimostrare se una nazione organizzata e governata come la nostra potrà durare. Il risultato non è affatto certo”.
John Fitzgerald Kennedy disse queste parole piene di fato nel 1961; e Arthur M. Schlesinger Jr le mise a epigrafe della propria intensa opera “The crisis of confidence -Ideas, power and violence in America” (1967). Questo Schlesinger, figlio di un altro Arthur M. che insegnava storia a Harvard, fu uno dei grandi nomi dell’Amministrazione Kennedy, astro del ‘circolo degli Scipioni’ che attorniava il presidente. Successore nella cattedra del padre a Harvard, consigliere speciale del presidente Kennedy, influenzò la temperie culturale della Nuova Frontiera più o meno come Paolo Diacono monaco longobardo segnò un po’ il regno di Carlo Magno. Qui vogliamo evocare alcuni pensieri di Schlesinger Jr, tratti dall’ edizione italiana (Rizzoli), per mostrare come un intellettuale di vertice presentiva mezzo secolo fa il degenerare delle prospettive anche spirituali dell’America, l’antica ‘fidanzata del mondo’.
“Siamo molto meno ottimisti riguardo a noi e al nostro futuro. Sembra che ormai gli eventi sfuggano al nostro controllo, che non possiamo più difenderci dal corso ineluttabile della storia. Cè motivo di credere che il pessimismo sia radicato come non mai. Le nostre città sono travagliate e in rivolta, c’è una crescente sfiducia e amarezza da parte delle minoranze, c’è un disfacimento dei legami di urbanità sociale, c’è una violenza contagiosa, c’è un moltiplicarsi del fanatismo di destra e di sinistra, c’è la generale tendenza, specie tra gli intellettuali, i giovani e i neri, a ripudiare l’assetto del paese. In cinque anni abbiamo avuto l’assassinio di tre uomini (John e Robert Kennedy, M.Luther King) che con la forza trascinante dei loro ideali avrebbero potuto tenere unita la nazione.
“All’estero l’America suscita sempre maggiore scetticismo e antipatia, i suoi intenti sono fraintesi e calunniati, i suoi sforzi inutili. Il fatto che mezzo milione di soldati americani, coadiuvati da un milione di soldati alleati, impiegando i mezzi della più moderna tecnologia militare, non sono riusciti a sconfiggere poche migliaia di guerriglieri in pigiama nero ha scosso la nostra fiducia nella potenza dell’America. E le devastazioni che abbiamo compiuto nel perseguire fini da noi ritenuti nobili ha scosso la nostra fiducia nella rettitudine americana. E’ giunto il momento di riesaminare le istituzioni e i valori del nostro paese. I Padri Fondatori concepivano gli Stati Uniti non come un risultato compiuto, ma come un esperimento. Sarà il popolo a rispondere all’interrogativo che si poneva John F.Kennedy quando si chiedeva se una nazione come la nostra potrà durare.
“Alla maggioranza dell’umanità dobbiamo sembrare un popolo orribile, visto che non abbiamo fatto nulla per impedire che l’omicidio divenisse un’importante tecnica di politica interna. Visto che abbiamo assalito un piccolo paese all’altro capo del mondo con una guerra assolutamente sproporzionata ai fini della sicurezza e dell’interesse nazionali. Ma soprattutto visto che le atrocità che commettiamo non hanno scalfito la nostra prosopopea ufficiale, la nostra sicumera di infallibilità morale. Lo zelo con cui ci siamo lanciati in una guerra irrazionale fa pensare che profonde spinte di odio e di violenza improntino tutta la nostra politica estera.
“Non c’è niente di più scoraggiante del vedere che alcuni intellettuali rifiutano gli strumenti della ragione, anzi cominciano essi stessi ad aggredirla. Stanno intensificando l’assalto alla civiltà, affrettano la disgregazione in atto nella società americana. Cosa ha spinto gli intellettuali a rivoltarsi contro la ragione? Buona parte della colpa è da attribuirsi alla guerra nel Vietnam, una guerra che ha indotto il nostro governo a seguire una linea di spaventosa e insensata distruzione. Ma la causa va oltre il Vietnam. Fa presentire una più vasta assurdità, persino una vera malvagità della nostra società ufficiale. Ad alcuni appare addirittura come il risultato fatale di un’irrimediabile corruzione del sistema americano.
“Non posso condividere la convinzione che ci fosse qualcosa di ineluttabile nella guerra nel Vietnam, che la natura della società americana avrebbe costretto qualunque governante a seguire la stessa linea folle. Si capisce però come le contraddizioni della nostra società possano pesare tanto sulle persone sensibili. Hanno prodotto un’ondata di disperazione sulla democrazia. Da quando abbiamo cominciato a bombardare il Nord Vietnam (febbraio 1965) il nostro governo è stato insensibile alle critiche più ponderate. Ha cominciato a farsi strada l’opinione che il sistema stesso della democrazia sia impotente nel nuovo assetto segnato dall’industrialismo economico, militare e intellettuale.
Cresce la convinzione che le politiche di partito siano solo una facciata e una finzione, si rafforza il cinismo nei riguardi delle istituzioni democratiche. Alla fine il senso d’impotenza della democrazia ha dato vita a un credo che si oppone in modo sistematico e violento alla democrazia stessa.
“Con il discorso al paese sul Vietnam, il 31 marzo 1968, il presidente Johnson ha fatto qualcosa di più che fermare l’escalation militare, intensificare i tentativi di negoziato e rinunciare alla rielezione. Ha annunciato il fallimento di una politica, forse anche la fine di un’epoca. La follia del Vietnam, se adeguatamente compresa, forse può salvarci da follie future. Con l’universalismo che ci ha portati nel Vietnam si è andato formando un gruppo di potere insolito per la società americana: una classe di militari interessati a termini di legge a istituzionalizzare e ampliare indefinitamente le politiche di interventi nel mondo intero. Con questa classe guerriera sono nate nuove forme di imperialismo. E’ qui certamente che va cercato uno dei moventi principali della nostra tendenza imperiale: l’incessante pressione dei militari di professione. Il blocco guerriero domanda costantemente più denaro, armamenti sempre più avanzati, sempre più impegni e interventi bellici. “La storia e le nostre conquiste -disse il presidente Johnson il 12 febbraio 1965- hanno imposto a noi la principale responsabilità di proteggere la libertà su tutta la terra”.
“Questo messianismo ci ha fatto perdere il senso dei rapporti tra mezzi e fini. Non penso che il nostro impegno originario nel Vietnam fosse di per sé immorale. Immorale è stato l’impiego di mezzi distruttivi assolutamente sproporzionati a fini razionali.
Il peso totale delle bombe sganciate sui due Vietnam era nell’ottobre 1968 di 2.948.O57 tonnellate. Il peso totale delle bombe sganciate durante la seconda guerra mondiale, sia nel teatro europeo sia in quello del Pacifico è stato di 2.057.244 tonnellate.
“Liberandoci dalle pastoie militariste della nostra politica estera, possiamo cominciare ad opporci. Solo riducendo la nostra presenza militare nel mondo potremo restaurare la nostra influenza. L’esperienza del Vietnam ha mostrato anche che non possiamo condurre due crociate simultanee: gestire una guerra anche piccola contro un paese sottosviluppato e contemporaneamente far fronte ai problemi interni degli USA. La politica di impegno totale nel mondo è incompatibile con la ricostruzione sociale in patria. In futuro il mondo terrà conto dell’America non per la sua forza militare, quanto per la capacità di sanare le divisioni interne e di realizzare le possibilità della società elettronica.
“Quanto alla Vecchia Politica, essa è un mito tenuto in vita dai politici professionisti che sono personalmente interessati a preservarla, e dai giornalisti che passano la maggior parte del loro tempo a intervistare i politici professionisti”.
Profirio